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Diario didactico pte 2: tutti bravi a personalizzare!

Mi sono prenotata a cinque incontri barra workshop barra seminari, non ricordo più, i titoli molto attuali, interessanti, e in linea con agende e protocolli dettati dall’UE, ma soprattutto con un aspetto in comune: la pericolosità.

Warning: contenuto esplosivo! Maneggiare con molta cura.

Il primo evento , “Strumenti per la personalizzazione dei percorsi di apprendimento attraverso le nuove tecnologie, figuratevi se me lo perdevo, potrebbe mai Yogi perdersi un  assaggio gratuito di miele? ha innescato il primo ordigno, che ci avrebbe messo meno di un ‘ora ad esplodere, poco dopo essermi seduta nella sala I3, con quaranta minuti circa di ritardo grazie alla solita splendida amica dal frigo a prova di ratto, che mi aveva informato, “dieci minuti a piedi da casa mia”! (Le mie amiche fanno le ganze quando sono io l’ospite in arrivo, ma se tocca a loro a venirmi a trovare, paranoia pura.). In più mi son poi persa gli appunti, perché nella foga finale ho dimenticato di salvare e il mio disgraziatissimo Huawei non mi ha allertato; quindi, ora mi tocca andare un po’ a braccio e un po’ a memoria.

Ma almeno andiamo per ordine.

Ritardo o no, trovo la Fortezza, trovo l’ingresso, trovo la sala: piuttosto gremita. Euforica entro, mi piazzo in prima fila. Mi siedo, tiro fuori il pc e comincio a seguire e ad annotare cose che la relatrice sta dicendo… technology for deeper learning, sento le endorfine invadermi: parole calde, familiari, annoto e sorrido, una collega di fronte – uomini pochi, chiedetevi perché – mi osserva con fare indagatore, di nuovo sorrido, ma lei non coglie, tento con le colleghe di fronte e di lato che però non raccolgono, “Noi normali, tu aliena”.
Ora, a chi mi chiede cosa penso delle TIC, le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, io di rispondere francamente mi sarei anche un po’ rotta perché sono dieci anni che mi ci sgolo e che ci insisto e mi formo e mi ci scontro, e ora che ci ero finalmente entrata in questa squola; ora che sembrava di avere finalmente guadagnato un megafono con cui gridarlo al mondo, ecco, mi silenziano.
Eh sì.

Proporrei quindi in alternativa questi due video per esemplificare:
Il primo è di un corsista senegalese che tre anni fa in un’aula che assomigliava molto a una bisca clandestina mi ha lanciato un appello accorato che mi ha stesa, e l’appello lo trovate qua.
Come si può fare?!
La sua domanda mi ha martellato il cervello per un anno e per un anno ho lavorato notte e giorno sperimentando e utilizzando tecnologie , e il risultato è riassunto qui, come risposta all’appello del corsista, ma, indovinate un po’: è stato silenziato.
La tecnologia dovrebbe alla fine consentire agli studenti di essere progettisti del proprio apprendimento, ha continuato una seconda  relatrice, … l’obiettivo è che gli studenti diventino pensatori critici e riflessivi per tutta la vita. 
Nel caso della scuola dove insegno io, il CPIA, che raduna prevalentemente migranti stranieri, più o meno giovani, i quali sono in Italia essenzialmente per assicurare a se stessi e alla propria famiglia una migliore qualità della vita, l’importanza delle TIC dovrebbe stare all’apprendimento come l’area picnic sta all’orso Yogi. Non fosse per i ranger… Ma questo non lo posso mica dire, né posso alzarmi e andare ad abbracciare questa ricercatrice di INDIRE che parla e incanta, e va al cuore del significato delle tecnologie:
la riattivazione di processi cognitivi pregressi.
Per dirla in parole semplici , anche partendo dallo strumento di TIC più noto a tutti, il computer,

questo “invita lo studente a porsi domande e prendere decisioni. Quando l’uso non è ancora pienamente padroneggiato, il computer richiede che ciascuna decisione venga esplicitata: occorre decidere dove puntare il cursore, quali operazioni compiere e come compierle, ricordare le procedure fondamentali. In questo modo si viene a concretizzare il passaggio fondamentale dall’intenzionalità all’azione. Poiché il computer non fa nulla che non gli venga detto di fare, diventa più facile aiutare gli studenti ad esplicitare la componente di controllo nel funzionamento cognitivo, il passaggio: “ciò che voglio fare” ? “come lo devo fare”.*

Esempio di insegnamento ibrido e multidisciplinare : la cartina è una foto ricavata da google Earth, il Michigan è rappresentato da due caramelle gommose a forma di Michigan (le michigummies) appiccicate allo schermo su cui l’insegnante ha fatto lezione di fonetica e di “assaggio”.

Vi rendete conto o no dell’importanza della cosa?
Immaginate un bambino di 7,8, 9 anni che esplora con Google Earth o altro software il mondo, si chiede, in italiano o in inglese o in altra lingua di studio, dove si trova quel luogo, cosa ci si mangia a colazione, a che ora ci si va a scuola, e tutta una serie di altre domande, sfide, ricerche
a u t o n o m e!
Where is Michigan?
What is Michigan?
Non lo sai? Esplora la rete e scoprilo, io ti faccio vedere come, poi guarda le immagini e scegli quella che ti piace di più, trasformala, rendila video, facci un tik tok! Condividilo con un amico, dagli un po’ della tua conoscenza. Facci un compito, ma che sia

a u t e n t i c o!

Ora immaginate un ragazzo di 20 anni che arriva dal Ghana, mastica un po’ di inglese e deve inserirsi in Italia, deve imparare a usare lo spid, a prenotarsi con il qr code, deve riempire un modulo online, affrontare la questura…
Where is the post office?
What is a codice fiscale?
Non lo sai? Esplora la rete e scoprilo, io ti faccio vedere come, poi guarda le immagini e scegli quello che ti piace di più, trasformalo, rendilo video, facci un tik tok! Condividilo con un amico, dagli un po’ della tua conoscenza. Facci un compito, ma che sia  a u t e n t i c o!
Perché solo le cose autentiche ci parlano della vita e ci danno voglia di imparare!

Le mie endorfine subiscono un’ennesima impennata quando la terza relatrice dice che le tecnologie sono inutili ovvero dannose se l’insegnante non è in grado di usarle in primis su di sé, sulla propria programmazione, quindi quando aggiunge che il lavoro di squadra fra docenti è essenziale (!), che la condivisione dei lavori è necessaria (!!), perché parliamoci chiaro: è inutile che il collega di informatica spiega l’uso di Office (e ti fa due balle tante!) se poi non viene integrato nelle materie varie. Inutile conoscere le app di google se poi riempio gli studenti di schede, fotocopie!

Queste cose che annoto le grido con lo sguardo, compio un giro a quasi 360 gradi ma non riesco a incrociarne uno solo che esprima empatia, spirito di squadra, condivisione, comprensione…

Tic-tac…tic-tac…

Doveva essere un workshop ma è stato un fallimento, ovviamente perché non si è lavorato, non si è condiviso nulla, le relatrici ci hanno divise in gruppi, due o tre per tavolo, prima un questionario sul perché, il percome e il cosa faresti se …. Ma sul mio gruppo è sceso il gelo, perché non c’è verso di farle ragionare queste docenti, di farle scendere dal podio della loro limitata esperienza, di farle uscire dalla loro comfort zone fatta di circolari, scatti di anzianità, classe di concorso, graduatorie, mad, fad, gps, e sigle varie. Quello che si sa fare con i poveri migranti e alunni in generale è classificare, individuare le “falle” quindi la personalizzazione è affidata ai protocolli, alle perdite di tempo (e di entusiasmo) del sistema scuola, al pietismo spacciato per empatia. Sì, ma noi..? Non appena si individua una falla nel sistema e la si espone a mo’ di piaga si incontra un muro: alto, massiccio, irremovibile. La cura si chiama umiltà, motivazione, entusiasmo. Professionalità. Ma come si fa poi, aggiungo io, a essere professionali con gli stipendi miseri di un insegnante da cui si pretende il massimo dandogli il minimo. Un docente però non vuol farsi dire che non prende abbastanza mentre potrebbe prendere di più (perché molti sanno che dovrebbero esserne all’altezza e non lo sono). Un docente oggi non vuole sentirsi dire che non fa (abbastanza) e potrebbe fare di più; che non sa e potrebbe imparare di più; denunciare di più; osare di più. Queste ultime righe le ho dette al microfono sotto gli occhi sconcertati ma empatici delle tre relatrici.
E allora: come si può fare?
Ma non c’è stata risposta.
Così mi sono scrollata di dosso qualche scheggia della deflagrazione, e sono andata allo stand della mia eroina.

***

 

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